Gianmaria Fulco, laico o.p.
Ogni
anno il quattro febbraio, in concomitanza con i festeggiamenti di santa Agata
patrona della città, i catanesi si recano nella chiesa di San Domenico fuori le
mura per rendere omaggio al corpo incorrotto del beato Bernardo Scammacca, che
è custodito in un’urna di vetro posta sotto una mensa d’altare fin dal 1501. Si
tratta di un beato molto amato a Catania, ma poco conosciuto nel resto
d’Italia.
Nacque
a Catania nel 1430 da nobile famiglia; il padre, medico, si chiamava
Matteo
e la madre Angela dei Rosso; al sacro fonte gli fu dato il nome di
Antonio
e trascorse la prima infanzia con la madre, che gli diede i primi rudimenti della
fede. Ebbe la fortuna di appartenere a una famiglia dalle tradizioni cristiane
che ha dato alla Chiesa tre venerabili: la venerabile Remigia Scammacca, morta
nel 1662 e le venerabili Giovanna Scammacca e suor Maria Scammacca, terziarie,
delle quali esistono i ritratti nel palazzo avito. Ricevette un’istruzione
all’altezza della famiglia cui apparteneva.
Crescendo
si rese conto, con disappunto, delle beghe e degli antagonismi esistenti tra i
nobili e tra gli aspiranti al potere nella cosa pubblica. All’età di 17 anni,
siamo nel 1447, rivestì la carica di magistrato all’annona della sua città.
Terminato
l’incarico, fu preso da altri interessi: dotato di grande intelligenza, titoli
nobiliari, cariche e beni tali da suscitare l’invidia di tanti, ben presto si
allontanò dalle pratiche religiose e, orgoglioso della sua posizione sociale, si
diede a una vita dissipata e licenziosa, con grande disappunto dei genitori.
Questo
modo di vivere inevitabilmente gli arrecò tante inimicizie, come quella con
Giovan Ferdinando Platamone, figlio del viceré di Sicilia, con il quale ebbe un
violento litigio (1448). I due rivali ricorsero alle armi e, trattandosi di
persone esperte nel maneggio della spada, duellarono accanitamente. Entrambi furono
gravemente feriti. Scammacca ricevette una profonda ferita a una coscia, mentre
il suo avversario ebbe la peggio, ma sopravvisse. A causa del duello Antonio fu
bandito dalla città, ma non rinsavì, tornando ben presto alle vecchie
abitudini. Il suo orgoglio non accettava l’umiliazione del bando e meditava la
vendetta. Tramite l’interessamento della famiglia riuscì a ottenere da re
Alfonso la cancellazione del bando e il ritorno a Catania.
Dopo
circa tre anni incontrò una giovane, di cui si innamorò perdutamente;
cercò
in vari modi di avvicinarla per manifestarle i suoi sentimenti, ma invano. La
giovane frequentava la chiesa di Santa Maria la Grande (oggi San Domenico) e
Antonio, pur di vederla, era costretto ad assistere alle varie funzioni.
Lentamente
tutte le prediche ascoltate lo portarono a riflettere sulla sua vita trascorsa,
iniziando così un’intima conversione del cuore. Da buon siciliano, focoso
com’era, non si accontentò della conversione, e decise di rinchiudersi nel
convento dei domenicani. Qui trovò il beato Pietro Geremia, allora in fama di
santità, che lo educò alla disciplina e alla preghiera.
Antonio
dovette abituarsi a rinunziare ai piaceri dei sensi e ai beni del mondo praticando
l’obbedienza e sottoponendosi a lunghi digiuni e umiliazioni. Finalmente giunse
la sospirata professione (6 febbraio 1453). Con essa rinunciò al suo ricco
patrimonio in favore dell’ospedale cittadino, mentre fece donazione di alcuni
poderi ai suoi zii.
Da
ricco feudatario divenne così un povero religioso domenicano.
Assunse
il nome di Bernardo e, destinato agli studi ecclesiastici, fu ordinato sacerdote.
Così lui, che era stato occasione di scandalo per tanti, con la parola e con
l’esempio cercò di ricondurre tante anime a Dio. Insegnò teologia nelle scuole
domenicane e dopo due anni il capitolo generale di Roma lo inviò come reggente
dello studio generale di Milano della Provincia di Lombardia. Il nostro Bernardo,
dotato di umiltà, pietà e dottrina, fu anche teologo e intelligente maestro per
tanti oltre che dalla cattedra anche dal pulpito e dal confessionale.
Non
volle, tuttavia, mai servirsi del titolo di maestro di teologia.
Seguì
un periodo in cui si dedicò al servizio di Dio e dell’Ordine domenicano in
diversi conventi. Nell’età avanzata si fermò a Catania ove ebbe modo di far
fruttare i suoi talenti. Scammacca seppe affrontare con impegno i problemi sociali
ed ecclesiali della sua epoca interpretando lo spirito domenicano, dedicandosi
allo studio, alla preghiera, alla predicazione, ai poveri della città, agli
ammalati del suo ospedale, alla restaurazione della vita religiosa regolare.
Non
ci ha lasciato opere dottrinali, ma sappiamo che la sua predicazione fu semplice,
pratica, pacata; era esperto nel capire le umane debolezze, nello scandagliare le
coscienze e indirizzarle verso la conversione del cuore. La sua carità non ebbe
confini, ricevette da Dio il dono di scrutare nell’intimo dei cuori e di
prevedere il futuro delle persone che a lui si rivolgevano. Come confessore aveva
una speciale capacità nell’arrivare al cuore dei peccatori, a tutti sapeva infondere
la fiducia nella misericordia di Dio e durante la confessione riusciva a
rianimare le anime avvilite dalla colpa infondendo in loro nobili sentimenti.
Era
molto umile e per questo era restio ad assumere la guida di un convento, ma per
obbedienza dovette accettare vari incarichi pur protestandosi inutile. In realtà
dietro questa umiltà c’era una persona ricca di meriti, tanto che i conventi facevano
a gara per averlo come superiore.
Scammacca
fu anche priore nel convento di Palermo e vicario generale dei conventi riformati
in Sicilia, fu varie volte priore del convento di Santa Maria la Grande e
presidente dell’ospedale cittadino, oggi ospedale Vittorio Emanuele, negli anni
1466-67, 1476, 1480 e 1482.
Nei
riguardi dei suoi religiosi fu come un padre buono dai modi semplici e retti.
Era
solito indicare loro la giusta via più con l’esempio che con la parola. Sotto di
lui la Provincia di Sicilia e i conventi ritornarono ai fasti di un tempo,
tanto che nel convento di Catania si arrivarono a contare ben 80 frati. Nel suo
convento in contemporanea furono presenti il beato Tommaso Clemente, il beato Giovanni
Falco e due futuri vescovi: Luigi Suppa, vescovo di Agrigento, il quale fu per
tre volte provinciale della Provincia domenicana di Sicilia e priore in vari conventi,
ed Eustachio Quintana (o Fontana?) di Catania, che studiò a Bologna nel 1571,
fu maestro di teologia nel 1580 e poi vescovo in Grecia nel 1604.
Si
racconta che un giorno in convento venne a mancare il pane; all’ora di pranzo gli
addetti alla cucina non sapevano come comportarsi e già qualcuno cominciava a
brontolare; i frati si rivolsero a lui, ma egli rispose che bisognava confidare
nella provvidenza di Dio. Ritornò a pregare, e Dio lo esaudì. Bussarono alla
porta, non c’era nessuno, tanto che il padre portinaio pensò allo scherzo di
qualche monello ma, ritornato in refettorio, vide sulla tavola due grandi ceste
di pane. Il beato Bernardo, prontamente avvisato, ne fu ovviamente contento.
Dai
testimoni al processo di beatificazione risulta che era solito aggirarsi per i giardini
del convento di Santa Maria la Grande per pregare, rapito dalle bellezze naturali
e parlando con gli uccelli come san Francesco, sant’Antonio di Padova, il beato
Giordano di Sassonia. I testimoni hanno anche raccontato di averlo visto più
volte sollevato da terra davanti al suo crocifisso. Una volta un confratello,
incaricato di cercarlo, non riusciva a trovarlo ma, giunto davanti alla sua
porta, vide una intensa luce che passava da sotto la soglia, si avvicinò e vide
Bernardo in estasi con un libro in mano mentre un angelo con una candela accesa
gli illuminava la stanza; il frate corse subito a chiamare il priore, e questi
a sua volta chiamò a raccolta tutti i religiosi per condividere l’avvenimento.
Questo
episodio fu immortalato in un quadro il cui originale si trova in Belgio.
La
morte lo colse a Catania alle ore 22 dell’11 gennaio 1487. Alla ferale notizia il
popolo si riversò nella chiesa di Santa Maria la Grande per l’ultimo saluto. Fu
inumato nella sepoltura comune dei frati. Ma una notte del 1501 il priore del
convento, il beato Giovanni Falco, sognò Scammacca che lo rimproverava perché
il suo corpo era sepolto senza alcun onore e venerazione: gli ordinò di dire ai
frati che questa era la volontà di Dio. A seguito di ciò i frati si riunirono e
decisero di procedere alla traslazione della salma. Mentre i frati in pompa
magna avanzavano verso il luogo della sepoltura, le campane si misero a suonare
spontaneamente: aperto il sepolcro, fu trovato il suo corpo incorrotto come se
fosse appena morto, mentre una soave fragranza si diffondeva nell’aria. Il
corpo fu trasportato nella chiesa in un’urna di legno posta sotto l’altare di
san Vincenzo Ferreri e solo successivamente, per andare incontro alle richieste
dei fedeli, fu messo in un’urna di vetro. Sopra l’altare fu posto un suo
ritratto dipinto dal Rapisarda, mentre il quadro di san Vincenzo Ferreri fu
trasferito nell’altare di fronte dove ancora si trova. Di lui si può dire che
se peccò tanto, molto di più amò.
Innumerevoli
sono i miracoli e i prodigi che si sono susseguiti per sua intercessione.
Papa
Leone XII ne approvò e confermò il culto l’8 marzo 1825.
L’Ordine
domenicano lo ricorda il 27 gennaio.